BADIALI MASSIMILIANO

Title:LA METAMORFOSI
Subject:ITALIAN FICTION Scarica il testo


Badiali Massimiliano

La metamorfosi



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Massimiliano Badiali
C'era una volta, in un tempo a noi remoto, in una piccola città romana di nome Arretium, una coppia di schiavi, che del loro vincolo coniugale vissero insieme solo qualche giorno.
Adaucus, di carnagione scura, di robusto corpo, aveva un volto sereno e dolce, uno spirito libero, che sognava al di là di quelle maledette catene, che erano poste sul suo corpo. Temerario e dignitoso non aveva perso neppure per un attimo il coraggio e prometeico continuava il suo quotidiano lavoro di animale da soma.
La moglie Mellita era ancora una fanciulla, di circa venticinque anni consunti: le si leggevano sul volto e sulle membra i segni della fatica del lavoro.
Mellita aveva pianto per anni ed anni. La donna che portava l'acqua dalla lontana fonte del fiume Arno, ogni giorno con somari ed asini carichi, partiva e tornava alla sera appesantita dal peso delle brocche. Un giorno mentre si stavano avvicinando alla madre il proprio figlio fu trucidato, perché lei stava ritardando per andare a prendere l'acqua.
Tre anni dopo Mellita partorì una bambina bellissima. Il suo nome fu quello di Aretia. Era dai capelli riccioli e neri, dagli occhi grandi, ma silenziosi.
Mellita ebbe con lei una dolcezza severa: come la povera schiava aveva imparato che la schiavitù non le permetteva di essere dolce.
Aretia crebbe forte e vitale. Questa solitudine austera creò in lei una forza profonda e sensibile. Impavida, ma dolcissima Aretia passò i suoi primi anni a lavorare nei campi ed ad accudire agli animali.
Un pomeriggio durante il meriggio, Aretia, alla tenera età di cinque anni, trovò nella cella, dove da sola era rinchiusa, dopo il lavoro di giorno, una crepa, da cui i suoi occhi indomiti osservarono intrepidi la luce. Per la prima volta, al di là di quella crepa, poté respirare la libertà. Fu così che il suo spirito temerario vi si aprì le porte alla vita. Ogni sera la nostra Aretia divenne libera e vide il cielo, la natura, la luna e poté respirarne la libertà.
La madre non la vedeva che poche volte al mese, in un incontro, per qualche minuto. Non si parlavano, ma si sorridevano con dolore, con amore. Adaucus non era più alla casa del patrizio°°°, ma lavorava in Arretium.
Dopo vari tentativi, finalmente una notte, Aretia trovò il padre in una zona distante dal Foro romano.
I centurioni, che circondavano gli schiavi l'un l'altro incatenati, dormivano sotto le morbide labbra di Bacco.
Con passi silenziosi lo vide e il suo cuore iniziò a palpitare di forti battiti.
Non ricordava bene quel volto... riconobbe il suo sguardo. Adaucus pianse lacrime di gioia e di dolore, ma implorò Aretia di correre via per non essere scoperta.
"Padre, ingiusto giove - implorò- che non concedi a noi schiavi di essere uomini, proteggi Aretia nel difficile cammino verso le sue catene".
Giorni dopo, una sera, Aretia cercò il padre nello stesso luogo, ma non trovatolo seguì il discendente corso degli schiavi, nascosta: essi dal Foro scendevano nel basso d'Arretium.
Nascosta e protetta dalla notte, poiché Selene commossa si richiuse come un bocciolo non propagando più luce, Aretia giunse davanti ad una vastissima costruzione e si nascose dentro un grande cespuglio. L'immensa costruzione era illuminata da torce.
Ella guardava attraverso l'ampio fuoco, cercando Adaucus. I suoi occhi increduli vedevano una struttura enorme, abbozzi di volte e immense lastre arenarie di pietra.
Aretia non vedeva il padre. Scrutava intorno ed infine lo intravide sulla piattaforma sopraelevata, nel Podium. Da una posizione così alta il padre gli parve un eroe.
Con gli altri schiavi trasportava blocchi di travertino, per ultimare nell'Anfiteatro le scale d'accesso al Podium.
Mentre, sudato e sporco, sognava abbracci e baci, con lo sguardo rivolto verso la figlia quasi che la vedesse, la sua vita fu per sempre spezzata dalla caduta di uno di quei blocchi.
Aretia voleva urlare, ma tacque. Tacque per sempre.
I centurioni, ordinato il recupero del blocco di travertino, lasciarono lì il corpo esanime di Adaucus. Sangue e brandelli. Queste furono le immagini del muto viaggio di Aretia, durante il ritorno.
Il giorno dopo Aretia disse a sua madre, scortala in procinto di andare a prendere l'acqua: "Madre, ascoltate Adaucus, marito vostro ieri morì sotto un blocco di travertino".
E queste furono le sue ultime sillabe. Mellita urlò straziata e pianse. Aretia rimase impassibile. Non profuse sussurro né singhiozzo. Muta restò e per sempre ad ogni lamento o domanda della madre.
Due anni dopo, Mellita, mentre andava al Foro, di ritorno dal fiume, a consegnare dell'acqua morì stremata.
Aretia, sognato l'accaduto, trovò il corpo la sera tarda, lo raccolse e in un posto isolato di abbracci e baci riempì l'amata madre. Non profuse lacrime né lamenti.
Seppellì le amate spoglie della madre nella terra fresca.
Una notte, consunta dal dolore e dal desiderio di riabbracciare gli amati genitori, così Aretia pregò: "Selene, ascolta la mia preghiera, congiungimi per sempre al corpo del padre e della madre mia".
Selene pianse e commossa svegliò l'Olimpo.
Giove impietosito colmò d'ambrosia quel piccolo corpo di Aretia. I suoi piedi s'inchiodarono al suolo, mettendo radici, le chiome ricce divennero foglie. Le fini gambe di Aretia divennero enormi radici, come esempio di quell'amore così grande che visse in silenzio e fino al martirio.
Il corpo di Aretia divenne tutto un albero reclino1, che fece ombra al corpo amato della madre. Il corpo del padre fu da Selene traslato qui.
Il vecchio Foro è stato sostituito da una bella fortezza.
E' proprio qui che ancora oggi il solitario viandante spesso di notte sente fruscii che assomigliano a parole umane. E quando osserva l'albero e il suo riccio fogliame di natura arborea vivente, sente le dolci e frondose parole che Aretia sussura.
Ed è questo il simbolo di quell'amore che nessuna catena ha potuto spezzare, dell'amore di Aretia, Mellita ed Adaucus.


---------------------------------------------------------------------------------------------------[1] Salendo verso l'entrata della Fortezza Medicea di Arezzo, sulla parte sinistra, possiamo notare il tronco reclino di quest'albero secolare, che mi ha fornito l'ispirazione della fiaba

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