COLLODI (LORENZINI CARLO)

Title:PRINCIPE AMATO (IL)
Subject:ITALIAN MISCELLANEOUS WRITINGS Scarica il testo


B>Il Principe Amato
di Carlo Collodi

una volta un Re, il quale era proprio una persona tanto perbene, che i suoi sudditi lo chiamavano il Re buono. Un giorno, mentre trovavasi a caccia, accadde che un coniglio bambino, che stava lì per essere ucciso dai cani, venne a gettarsi fra le sue braccia.
Il Re fece delle carezze alla povera bestiolina e disse:
«Giacché si è messo sotto la mia protezione, non voglio che nessuno gli faccia del male».
E portò il piccolo coniglio nel suo palazzo, e gli fece dare una bella stanzina e delle erbe eccellenti da mangiare.
Nella notte, quando fu solo in camera, il Re vide apparire una bella donna, la quale non era vestita con abiti ricamati d'oro e d'argento, ma la sua veste era bianca come la neve, e portava in testa una corona di rose bianche.
Il buon Re rimase molto maravigliato nel vedere questa signora, tanto più che l'uscio di camera era chiuso, né sapeva capacitarsi come diavolo avesse fatto a passar dentro.
«Io sono la fata Candida, e passando per il bosco mentre eravate a caccia, volli vedere se veramente siete quel buon Re, che tutti dicono. A questo fine presi la figura di un piccolo coniglio e mi messi in salvo fra le vostre braccia: perché so che chi sente pietà per le bestie, la sente anche per gli uomini: e se mi aveste ricusato il vostro soccorso, vi avrei tenuto per un cattivo. Vi ringrazio dunque del bene che mi avete fatto, e contate che io sarò sempre vostra buonissima amica. Voi non dovete far altro che chiedere, e tutto vi sarà accordato».
«Signora», disse il buon Re, «poiché siete una fata, voi dovete leggermi in cuore quel che desidero. Io non ho che un figlio solo, al quale voglio un bene tanto che lo chiamano tutti il Principe Amato. Se mi volete fare un regalo, pigliate a benvolere questo mio figlio.»
«Con tutto il cuore», rispose la fata, «io posso fare del vostro figlio o il più bel Principe del mondo, o il più ricco, o il più potente. Scegliete voi.»
«Nulla di tutto questo», replicò il buon Re, «quanto a me, vi sarò obbligatissimo se vorrete farne il migliore dei Principi. A che gli servirebbe di esser bello, ricco e padrone di tutti i regni del mondo, se fosse cattivo? Voi sapete meglio di me che sarebbe un disgraziato, perché non che la virtù che renda veramente felici.»
«Avete mille ragioni», rispose Candida, «ma non è in mio potere di far diventar buono il Principe Amato, a suo dispetto: se vuol esser virtuoso, bisogna che ci metta e della buona volontà. Tutto quel più che posso promettervi è di dargli dei buoni consigli, di riprenderlo quando farà male: e anche di castigarlo, se non voglia correggersi o punirsi da sé.»
Il buon Re fu arcicontento di questa promessa, e dopo poco morì. Amato pianse moltissimo il padre, perché era tutta la sua affezione, e avrebbe dato volentieri regni, oro, argento, ogni cosa insomma, per poterlo salvare: ma non era possibile.
Due giorni dopo la morte del Re, mentre Amato era a letto, Candida gli apparve e gli disse:
«Ho promesso a vostro padre di esservi buona amica; e in segno che voglio mantenere la mia parola, eccomi qua a farvi un regalo».
E nel dir così, infilò un anellino nel dito di Amato e gli disse:
«Tenete conto di quest'anello: è più prezioso dei brillanti; ogni volta che sarete per fare una cattiva azione, vi pungerà il dito: ma se nonostante la puntura, vi ostinerete nel male, perderete la mia amicizia e diventerò vostra nemica».
Dette queste parole, Candida sparì e lasciò Amato fuori di sé dallo stupore.
Per qualche tempo egli fu così ammodo e perbene, che non sentì mai bucarsi dall'anello: e questa cosa lo rendeva tanto contento, che al suo nome di Amato, che già portava, gli venne aggiunto anche quello di Felice. Accadde però che in quei giorni essendo andato a caccia e non avendo morto nessun animale, entrò di cattivissimo umore. Allora gli parve che l'anello gli pigiasse, così non ci badò né tanto né quanto. Entrato che fu nella sua camera, la canina Bibì gli venne incontro, tutta saltellante in atto di fargli festa, ma egli le disse:
«Passa a cuccia! Ho altro per il capo che le tue carezze».
Ma la povera canina che non capiva nulla di quel che diceva, gli tirava il vestito per obbligarlo almeno a voltarsi a guardarla. Questo bastò per fargli perdere la pazienza e le lasciò andare una gran pedata. In quel momento l'anello lo punse così forte, come se fosse stato uno spillo. Egli ne restò confuso, e tutto rosso dalla vergogna andò a nascondersi in un canto della sua camera.
E intanto pensava: "Io credo che la fata abbia voglia di burlarsi di me: che male ci può essere a dare una pedata a una bestia che viene a seccarmi? siamo giusti: a che mi servirebbe di essere il sovrano di un grand'impero, se non fossi neanche padrone di picchiare il mio cane?".
«Io non mi burlo di voi», disse una voce che rispondeva al pensiero di Amato, «voi avete commesso tre errori, invece di uno: siete entrato di cattivo umore, perché vorreste tutte le cose a modo vostro e perché credete che le bestie e gli uomini sieno creati apposta per ubbidirvi; siete andato in furia, e anche questa è una cosa bruttissima; in terzo luogo, vi siete mostrato crudele con una povera bestiuola, che non si meritava davvero di essere presa a calci. Lo so che voi siete molto al di sopra di un cane, ma se fosse lecito e ragionevole che i grandi potessero maltrattare la gente che sta al disotto di loro, io potrei in questo momento battervi e anche uccidervi; perché una fata è da più uomo. Il vantaggio di trovarsi padroni di un grande impero, non sta nel poter far tutto il male che si vuole, ma tutto il bene che si può.»
Amato riconobbe il suo errore e diè parola di emendarsene. Ma fu come dire al vento. Bisogna sapere che fin da bambino era stato allevato da una sciocca governante, che lo aveva avvezzato male. Se voleva una cosa, non doveva far altro che piangere, imbizzirsi, pestare i piedi e quella lo contentava subito, e così ne faceva un ostinato, da non poterci campare. Fra le altre cose, essa passava le giornate intere a dirgli e ripetergli che un giorno sarebbe diventato Re, e che i Re erano felicissimi perché tutti gli uomini dovevano ubbidirli e venerarli, e perché erano padroni di cavarsi tutti i capricci che frullavano loro per la testa.
Quand'Amato crebbe e fu in caso di ragionare, riconobbe da sé che non c'era cosa tanto brutta, come quella di mostrarsi disprezzanti, orgogliosi e testardi. E si studiò di correggersi, ma ormai si era tirato su con tutti questi difetti, e quando si è presa una cattiva piega è difficile abbandonarla. Non si può dire, peraltro, che in fondo in fondo fosse cattivo di cuore: ché anzi, quando aveva commesso qualche errore, piangeva dal dispetto e diceva:
«Quanto son disgraziato di dover combattere tutti i giorni contro la mia superbia e contro il mio naturale bizzoso. Se da ragazzo mi avessero sgridato, ora non mi ritroverei a questo dispiacere».
L'anello lo pungeva spesso, e allora, se egli stava facendo non bella, si fermava subito: altre volte invece non ci badava e tirava avanti: e la cosa curiosa era questa: che per i piccoli falli, l'anello lo pungeva poco: ma quando poi si mostrava cattivo davvero, allora gli faceva uscire il sangue dal dito.
Alla fine perse la pazienza e volendo essere un malanno quanto gli pareva e piaceva, gettò via l'anello. Liberato dalla seccatura di sentirsi bucare, credé di essere il mortale più felice della terra. Si buttò allo sbaraglio e ne fece di ogni risma e colore: talché diventò un vero rompicollo e nessuno lo poteva soffrire.
Un giorno che Amato era alla passeggiata, vide una fanciulla tanto bella che esso si messe subito di volerla sposare. Si chiamava Zelia ed era una ragazzina tanto perbene, quanto era bella. Amato si figurava che a Zelia sarebbe parso di toccare il cielo con un dito a poter diventare una gran Regina; ma la fanciulla invece gli disse senza tanti complimenti:
«Sire, io sono una povera contadinella e senza un soldo di dote: eppure, sebbene nuda bruca, non vi sposerò mai».
«Che forse non vi piaccio?», le domandò Amato un tantino commosso.
«No, mio Principe», rispose Zelia, «per me siete bellissimo, come lo siete difatti: ma a che vi gioverebbe la vostra bellezza, le vostre ricchezze, i bei vestiti e le belle carrozze che avete, se i vostri cattivi portamenti mi costringessero tutti i giorni a pigliarvi in uggia e dispetto?»
Amato s'imbestialì contro Zelia e ordinò a' suoi ufficiali di condurla per forza ...