Strada Annalisa

Title:Virus
Subject:FICTION Scarica il testo


ANNALISA STRADA
Virus


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I protagonisti

Anacleto Provati
Benedetta Provati
Dario Conti
Clotilde Giannecchini
Ettore Piazza
Filastro Provati
Genziana Fioriti Provati
Irenerio Dannati
Leonardo Pestalozza
Matteo Lancetti
Nando
Orlando

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Antefatto
Qualcosa non va al laboratorio


Il lungo corridoio bianco prendeva luce dai neon incastrati nel soffitto. Le pareti e il pavimento cominciavano a scurirsi negli angoli.
Da quando il ritmo di lavoro si era fatto più incalzante e gli esperimenti più pericolosi, gli uomini dell’impresa di pulizie erano stati tenuti fuori per ragioni di sicurezza. Meno civili mettevano piede lì dentro e meglio era. Per loro e per tutti.
Al mattino, scienziati intraprendenti, analisti volenterosi e portaborse succubi si affannavano a buttare le cartacce e a passare, almeno sommariamente, lo strofinaccio.
Il dottor Sisalvi aveva suggerito l’idea di invitare sua moglie per una giornata di pulizie. Così, almeno, lui avrebbe risparmiato la sua carta di credito dallo stress dello shopping quotidiano in centro.
I suoi austeri colleghi avevano trovato l’idea semplicemente geniale e avevano pensato di estenderla alle loro mogli, tutte ugualmente inoperose e spendaccione, grazie agli imponenti stipendi dei mariti, pagati per segretissime missioni scientifiche. Le signore, però, non avevano trovato l’idea altrettanto valida e, con una generale levata di scudi, avevano rifornito i mariti di spazzettoni e detersivi perché provvedessero da soli all’igiene di base di laboratori e uffici.

L’ultima porta in fondo al corridoio era l’unica in noce chiaro e il suo rettangolo marrone spiccava ben nel bianco sporco dell’edificio.
Quella mattina era ermeticamente chiusa ma, nonostante la precauzione, gli scoppi di voci arrivavano ben chiari fino all’ingresso.
Tanto, comunque, c’era ben poco da nascondere. Tutti, ormai, sapevano tutto. E tenevano le bocche cucite.
“Guai a chi parla!” stava sbraitando con voce strozzata dalla rabbia il direttore del laboratorio, il leggendario Irnerio Dannati. Tutti ne avevano sentito parlare. Pochi lo avevano visto. Di solito stava tappato nel suo ufficio regale, che abbandonava solo per le sue celeberrime sfuriate.
“Io non posso nemmeno tollerare” continuò Dannati, ringhiando come un cane da guardia nella notte, “che qualcuno fuori da qua sappia che tutto questo casino l’abbiamo fatto scoppiare noi!!!”
“Ma capo, veramente, l’idea di diffondere il virus per testare la resistenza dei civili non è stata nostra….”
“Guai!” e Dannati assunse un colorino violaceo, abbastanza preoccupante per le sue condizioni di salute. “Guai! Guai!” e per un attimo non sembrò capace di aggiungere altro, ma i suoi interlocutoria spettarono fiduciosi che arrivasse anche qualche altra parola. E, infatti, arrivò insieme con una nuova frase, buttata fuori tutta d’un fiato: “Guai se qualcuno, fuori da qua, viene a sapere che siamo stati noi a scatenare il pandemonio!”
Poi, sussurrando, girando guardingo la testa a destra e a sinistra: “Devono pensare che arriva da lontano. Bisogna dare la colpa a qualcun altro. Insomma” e abbassò la voce ancora di più, facendola diventare impercettibile: “si deve pensare a una disgrazia.”
Il silenzio calò gelido.
Leonardo Pestalozza e Matteo Lancetti, seduti davanti al direttore, erano due scienziati con gli occhiali spessi e i capelli cespugliosi. Si somigliavano tanto che i colleghi, di nascosto, li chiamavano Cip e Ciop. Immobili davanti al loro capo, lo fissarono. Erano incerti se indignarsi o ridere per la violenza eccessiva della sua rabbia.
La loro incertezza durò qualche istante di troppo: esattamente il tempo necessario perché Dannati si imbufalisse definitivamente e, con un’emissione di fiato degna di un baritono sul finale dell’opera, latrò: “Dov’è finito Filastro Provati?!”
Ora, bisogna sapere che Filastro Provati in pochi lo chiamavano davvero così. Quel nome lo aveva ereditato da un bisononno ed era stato scelto dai suoi genitori all’unico ed esclusivo scopo di garantirsi l’eredità. Tutti, poi, lo avevano chiamato “Fil” o “il Filla”. Fatto sta che in pochi conoscevano il suo nome per esteso. Sui biglietti da visita appariva solo come una F con il punto: F.
Fil Provati, nella vita, faceva il ricercatore ed era a capo del dipartimento di biologia nel quale si era scatenato il putiferio che stava facendo saltare le valvole cardiache del dottor Dannati.
Pestalozza e Lancetti, ovvero Cip e Ciop, lavoravano con lui da parecchi anni e ne erano diventati amici. Così, sapevano benissimo che quel giorno, in via del tutto eccezionale, Fil non si era fermato fino a tardi: era uscito alle 18 in punto per andare dal dentista. Certo, adesso sembrava una scusa banale, ma in un giorno normale, sarebbe stata un’ottima ragione per lasciare l’ufficio all’orario normale di chiusura.
“Credo sia già andato a casa…” iniziò Pestalozza.
“…aveva una visita programmata” completò Lancetti, finendo senza indugi la spiegazione, così che fu come se la frase l’avesse pronunciata una sola persona.
“Una visita?! Qui tra un po’ saremo tutti immobili come vegetali e lui va a farsi… una visita!”
Un attimo di silenzio tombale lasciò intuire l’eco dell’ultima esclamazione.
“Tutti fuori di qua! Domani mattina alle 6 vi voglio qui, a rapporto. E fate sapere a Provati che non può mancare!”
Al tuono delle ultime affermazioni fece seguito un’affermazione piatta piatta: “E speriamo che non sia già troppo tardi.”
Proprio quest’ultima frase, detta da Dannati con quel tono assente, allarmò Pestalozza e Lancetti.
Lancetti esitò: “Ma l’antidoto…”
E fu la goccia che fece traboccare il vaso: “Antidoto?! Lei scherza! Il problema non deve esistere. Ricordatevi: nessuno parli. Perché noi – sia chiaro – sosterremo di non saperne niente!”
E, presi per le spalle i suoi ospiti, il dottor Dannati li buttò fuori dallo studio richiudendo la porta alle loro spalle con un secco “sblam!”.
Da quel momento, il laboratorio fu animato solo dal brusio degli analisti e dei tecnici che rimanevano fino a notte fonda per finire gli urgentissimi lavori di quei giorni.
Non foss’altro, ebbero tutti modo di concludere che, in confronto a quel pandemonio, pulire per terra era quasi un relax – in molti rimpiansero la carriera di casalinga che le loro mogli, fieramente avverse al lavoro fuori casa, conducevano da un’esistenza intera.
Il che dimostra come un virus, a volte, possa servire a dare lustro a un’intera categoria di lavoratrici domestiche.



Capitolo 1
Due fratelli quasi gemelli e una casa occupata


Leto e Detta Provati, i figli di Fil, erano in camera loro, dediti a una sessione di videogiochi. Giocavano in due, con joystick diversi, condividendo il video.
I loro nomi, come quello del padre, erano il frutto dello stravagante albero genealogico di cui erano l’ultimo virgulto.
Leto si chiamava in realtà Anacleto, come il nonno. Nel caso suo, non era un’anticipazione sulla garanzia di eredità, ma un modo per accaparrarsi la casa in cui vivevano: uno spazioso appartamento in centro, ricavato in un palazzo antico grazie all’abile manovra di immobiliare. Come tutte le case un po’ datate era gelida d’inverno e fresca d’estate. Le stanze erano grandi e le finestre generose. L’umidità regnava sovrana. Ma alla mamma piaceva così e al papà pure. Il pavimento originale in cotto era sconnesso e inciampare era facile come bere un bicchier d’acqua, ma l’abbondanza di stanze aveva compensato il disagio. C’erano gradini ovunque, ma anche su questo si era chiuso un occhio. Anzi, una volta la mamma si era chiusa un occhio con una botta in uno spigolo, ma non per questo aveva cambiato opinione sui pregi della sua abitazione.
Detta, invece, era il diminutivo di un più normale Benedetta. Ma lei preferiva accorciarselo: mica che fosse l’unica ad avere un nome intero, in famiglia, vi pare? Le tradizioni vanno rispettate. Peccato che in questo caso il rispetto non avesse un tornaconto concreto, secondo le più illustri consuetudini della famiglia.
Erano seduti sulla cuccetta più bassa del letto a castello, quella dove dormiva Detta.
Si somigliavano molto. Davvero molto. Tanto che alcuni li credevano gemelli.
Perché una cosa è da spiegare: Leto e Detta frequentavano la stessa classe.
Gemelli, dunque? No.
Uno dei due bocciato? Nemmeno.
Avevano tutti e due 13 anni.
E allora?!
Leto e Detta, semplicemente, erano nati nello stesso anno: Leto l’11 gennaio e Detta il 19 dicembre.
Questa, insomma, era la lunga storia che dovevano spiegare a chiunque li incontrasse per la prima volta e cercasse di capire com’era articolata la famiglia. E’ naturalmente bene chiudere un orecchio (forse tutti e due) pensando alle battute che quelle due nascite così ravvicinate suscitavano di solito presso gli sconosciuti. Ma i due marmocchi erano corazzati, e si vantavano, anzi, di avere genitori tanto solerti.
Ma al momento su ben altro i nostri erano del tutto assorti, altro che le date di nascita. Gli occhi fissi sullo schermo, le labbra serrate per la concentrazione, le nocche delle dita bianche per la stretta e qualche impercettibile sussulto del corpo per la partecipazione. Tutto lì. Nessuna parola. La colonna sonora era quella del giochetto.
Piripiripiripiiiiiii. E poi blop.
All’improvviso, il silenzio.
Due faccine inviperite si guardarono in torno esterrefatte. La mamma, accanto alla porta, teneva in mano la presa che aveva appena staccato dal muro.
“Mamma!”
“Nooo! Stavo battendo il mio record! Non dovevi!!!”
Il gatto di casa, Marcolfo, ...