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Strada Annalisa
Title:UNA GIORNATA COME TANTE, UNA SCUOLA COME POCHE
Subject:FICTION
1a C: su il sipario!
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UNA GIORNATA COME TANTE,
UNA SCUOLA COME POCHE
di
Annalisa Strada
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L’antefatto
Sblam!
La porta si chiuse con un tonfo sordo e il fiotto di voci si spense nel corridoio. Anche l’ultimo gridolino fu soffocato dal pesante botto.
Metteva sempre un po’ più di energia del necessario quando chiudeva la porta di una classe con la quale si era molto divertito. E quella classe era stata davvero fantastica. Avevano finito il lavoro a giugno ma adesso, all’inizio del nuovo anno scolastico, non aveva resistito alla tentazione di passare a salutarli.
Quando gli avevano proposto di dedicarsi all’animazione teatrale nelle scuole non gli era sembrato un progetto interessante, ma ben presto aveva dovuto ricredersi: se la spassava davvero!
“Alessandro!”
Dal fondo del corridoio la bidella arrivava di corsa, scivolando leggermente a ogni passo sul pavimento tirato a lucido: “Alessandro! Il tuo cellulare continua a squillare!”
“Il mio cellulare?!”
“Sì” sospirò la bidella scuotendo la testa con aria di rimprovero, “L’hai lasciato in segreteria. Acceso. Come al solito.”
“Ah, scusa… Grazie” e prendendo in mano il telefonino sbirciò il display: 8 chiamate perse. Tre dello stesso numero. Lo digitò e si trovò in linea con una voce nasale e austera: “Scuola media Andersen. Chi parla?”
“Sono Alessandro Monfalconi. Mi avete cercato…”
“Ah, quello dell’animazione.” Il tono era poco amichevole. “Il preside chiede se è pronto per cominciare. Può venire il prossimo martedì?”
Alessandro considerò che doveva trattarsi di una segretaria scorbutica: il suo genere preferito. Fece la voce fonda fonda e replicò: “Con quale classe parte il progetto?”
“Partiamo con la 1a C. Lei è pronto?”
“Sempre pronto, sempre all’erta!” scherzò. “Sarò da voi alle 8 del prossimo martedì.”
“Bene. La aspettiamo.”
“Ciao, ciao bambina” canterellò Alessandro, ma la comunicazione si era già interrotta.
Ridacchiando Alessandro disse tra sé e sé: “Ragazzi della 1^ C, arrivo!”
Intanto da dietro alla porta a vetri la solita bidella si affannava con una giacca in mano: “Alessandro! Hai dimenticato il soprabito!”
Ma Alessandro era già in macchina e canticchiava un motivetto allegro.
Quattro chiacchiere e un’idea
Con la faccia coperta dalla schiuma da barba, faceva mille smorfie per passare il rasoio sotto al naso, vicino ai lobi delle orecchie, attorno alle basette e sotto al mento.
Buona parte di quelle smorfie non era strettamente necessaria, ma lui si divertiva.
Le guance - una distesa piana - erano più facili e gli piaceva lasciarle per ultime.
Completata l’operazione, si congratulò per non essersi fatto neanche un taglietto piccolo piccolo.
Sciacquò i residui di crema e indossò la camicia.
Con un colpo di spazzola provò a domare la capigliatura un po’ arruffata. Si avvicinò allo specchio per controllare che nella notte non fosse spuntato nessun capello bianco. Felice della ricerca infruttuosa, si sorrise e mandò un saluto alla sua figura riflessa.
Passando davanti al ripostiglio si ricordò di aver prenotato il campo da tennis per il pomeriggio. Franco era un tipo puntualissimo. Meglio preparare tutto in anticipo se non voleva lasciarlo ad aspettare sotto il sole ancora caldo di quell’ottobre quasi estivo.
La sua racchetta aveva l’aspetto di un cimelio, e proprio per questo la adorava. La sua fedeltà assoluta a quell’attrezzatura fuori moda era uno degli argomenti di conversazione preferiti di tutti i suoi amici.
Oltrepassò la soglia della cucina simulando un rovescio che sfiorò la teiera, ma non evitò la confezione dei biscotti.
“Alessandro!” La vecchia zia apparve da dietro la porta aperta del frigorifero.
“Zietta! Buona giornata!”
“Anche a te! Ma non profferire altre parole prima di aver raccolto i biscotti e spazzato via le briciole. Sai che non sopporto né le briciole né le formiche.”
“E non sopporti quasi più nemmeno tuo nipote. Confessalo!”
“Sono troppo vecchia. Devo stare attenta a quello che confesso: potrebbe essere usato contro di me!”
“Zia, dammi retta, tu guardi troppi telefilm.”
“Il fatto è che nessuno m’invita più a uscire.”
“Puoi sempre andare a giocare a tombola…”
“Con quelle vecchiette? Quando tu ti sposi io comincio a giocare a tombola.”
“Comincia a collezionare i fagioli secchi.”
“Sì, per il prossimo minestrone…”
Alessandro e la zia Carlotta vivevano insieme da quando Alessandro e il fratello maggiore Pietro erano rimasti orfani. Siccome all’epoca della morte dei genitori erano già abbastanza grandi, non aveva mai esercitato funzioni materne, ma, piuttosto, si era trasformata in una specie di gran saggia della famiglia. Sempre allegra e scanzonata, anche adesso che era sull’orlo degli ottant’anni seguitava a fornire prova di una vitalità spumeggiante.
“Su zia, tieniti in forma”. Così dicendo, Alessandro le porse la racchetta e si avviò verso l’aspirapolvere.
“Hai ragione”, ammise la donna impugnando in maniera maldestra la racchetta. “La vita va presa… sportivamente.”
“Sportivamente…”, soppesò Alessandro. “Certo, la vita può essere un’escursione con il surf. Vento, sole, mare e la netta impressione che il mondo sia perfetto.”
Il ronzio dell’aspirapolvere obbligò entrambi a una pausa. Mentre Alessandro ne riavvolgeva il cavo attorno al manico, riprese: “Ma non sempre va così. Qualche volta è una partita di squash e a qualcuno può toccare di fare il muro. Zia, non ci hai mai pensato? Dimmi, secondo te, perché alcuni fanno il surfista e altri il muro dello squash?”
“Perché un po’ ci sono portati e un po’ per i casi della vita. In linea di massima è una questione di atteggiamento, di volontà e di fortuna.”
“Sono d’accordo. Quasi su tutto. Continuiamo l’interrogazione. Pensaci un po’ su e poi dimmi, zia: si può essere muro e diventare surfisti? E, stammi bene a sentire perché questa è la parte più difficile: si può correre anche il rischio inverso… essere surfisti e diventare muro?”
“Certo. A tutte e due le domande. Per passare da muro a surfista e per non ricadere da surfista a muro c’è una sola tecnica, che io sappia: bisogna lavorare su se stessi. Molto. Conoscersi. Studiarsi in rapporto agli altri. Capire dove funzioniamo e dove stiamo sbagliando. Non è facile.” La zia se ne stava ancora con la racchetta in mano. “Tu che cosa ne pensi?”
“Sono quasi completamente in sintonia con te. Ma non voglio rispondere. Quello che fa le domande sono io.”
“Bella pretesa.”
“Il gioco l’ho cominciato io. Quindi si gioca a modo mio. Dài, va’ avanti.”
La zia sembrò sul punto di spazientirsi. Lo fissò un attimo e il viso s’illuminò all’improvviso: “Ti ricordi quando eri piccolo?”
“Abbastanza… Quando, esattamente?”
“Una volta, avrai avuto sette o otto anni, volevi a tutti i costi giocare a basket perché avevi visto dei ragazzi più grandi che si divertivano. Per farti contento ti passarono la palla. Tu eri felice, ma eri anche tanto timido e stavi sempre al bordo del campo. Proprio a lato del canestro. Fuori dell’area di gioco, insomma. Da lì lanciavi la palla, ma non potevi fare centro! Dopo alcuni tentativi capisti che non ce l’avresti mai fatta se non ti mettevi davanti al cesto. Ti sei spostato e hai messo a segno un canestro fantastico.”
Alessandro bevve il tè e sgranocchiò un paio di biscotti. Con la bocca piena si complimentò: “Hai una memoria di ferro, zia. E mi hai fatto venire un’idea.”
“Quale?”
“Te lo racconto quando torno.”
Uscendo di casa aspirò profondamente i profumi dell’autunno: l’olea fragrans spargeva un aroma intensissimo. Non aveva ancora capito in quale giardino coltivassero quel delizioso arbusto, ma era grato a chi se ne prendeva cura. Crescere in giardino una pianta profumata è un regalo all’umanità. Alessandro, almeno, la pensava così.
Quella mattina sarebbe andato a conoscere i ragazzi della 1a C della scuola media Hans Christian Andersen. Della classe con cui avrebbe lavorato non sapeva nulla ed era curioso.
Salì in macchina e uscì dal box in retro.
La sua retromarcia non era infallibile e gli occorreva tutta la sua attenzione per andare dritto, sterzare al momento opportuno e arrivare sulla strada nella posizione giusta. Per vincere la pendenza, schiacciò di lena sull’acceleratore.
Il botto delle lamiere lo colse alla sprovvista. Schiacciò il piede sul freno e si trovò a oscillare violentemente avanti e indietro.
Cercò di alzarsi dal sedile senza slacciare la cintura di sicurezza e stava ancora armeggiando con il blocco delle cinture quando la sua vicina di casa si precipitò ad aprirgli la portiera: “Alessandro, perdinci, ma chi ti ha dato la patente?”
“Rossana! Sono mortificato…”
“Mortificato? È la terza volta in un mese che mi vieni addosso! La mia assicurazione non mi crede più!”
Le cose stavano proprio così: Alessandro e Rossana abitavano nella stessa fila di casette a schiera, a tre numeri civici di distanza. Rossana parcheggiava nei posteggi all’aperto e Alessandro metteva la macchina nei box auto interrati.
Quando partivano alla stessa ora, la loro rotta convergeva. Inevitabilmente.
Qualche volta erano riusciti a evitarsi, ma nell’ultimo periodo avevano, diciamo, perso il controllo della situazione.
Rossana era furente: ...
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