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COLLODI (LORENZINI CARLO)
Title:GATTA BIANCA (LA)
Subject:ITALIAN FICTION
La Gatta Bianca
di Carlo Collodi
una volta un Re il quale aveva tre figli: tre pezzi di giovanotti forti e coraggiosi; ed egli si era messo paura che volessero salire sul trono prima della sua morte: tanto più, che stando a certe voci che correvano, i suoi figli cercavano dappertutto di farsi dei partigiani per impadronirsi del regno.
Il Re cominciava a essere un po' in là cogli anni, ma essendo ancora verde di spirito e sano di mente, non se la sentiva punto di cedere loro un posto, occupato da lui con tanta dignità. Pensò, dunque, che il miglior partito per vivere tranquillo fosse quello di tenerli a bocca dolce a furia di promesse, che egli avrebbe saputo sempre deludere e mandare in fumo.
Li chiamò nel suo gabinetto, e dopo aver parlato alla buona di varie cose, saltò fuori col dire:
«Miei cari figli, voi converrete meco che la mia età avanzata non mi permette più di accudire agli affari di Stato con lo stesso impegno volta; temo che i miei sudditi ne abbiano a risentire i danni, ed è per questo che ho deciso di mettere la corona sul capo a uno di voi tre. Peraltro è ben giusto che in compenso di un regalo simile, voi dobbiate cercare di compiacermi nel disegno, che oramai ho fatto, di ritirarmi in campagna. Mi pare che un canino vispo, fido, grazioso potrebbe tenermi un'ottima compagnia: così, senza stare a scegliere il figlio maggiore piuttosto del minore, io vi dichiaro che quello che di voi tre mi porterà il canino più bello, quello sarà il mio erede».
I principi restarono sorpresi del capriccio del loro padre per un canino, ma i due minori vi trovarono il loro tornaconto ed accettarono con piacere la commissione di andare in cerca di un cane. Quanto al figlio maggiore, era troppo timido e troppo rispettoso per far valere i suoi diritti. Presero quindi congedo dal Re, il quale li fornì d'oro e di pietre preziose, soggiungendo che fra un anno, né più né meno, in quello stesso giorno e alla medesima ora, dovessero tornare a portargli ciascuno il suo canino.
Prima di mettersi in viaggio i tre fratelli andarono a un castello, discosto appena un miglio dalla città. Menarono seco gli amici e fecero gran baldoria, giurandosi tutti e tre amicizia eterna, e restando intesi che in questa faccenda avrebbero ciascuno tirato avanti per il fatto suo, senza gelosie e rancori, e che in ogni caso il più fortunato avrebbe sempre tenuto a parte gli altri due della sua fortuna.
E così partirono, dopo aver fissato che al ritorno si sarebbero ritrovati nello stesso castello, per poi recarsi tutti insieme dal Re.
Non vollero con sé nessuno, e cambiarono di nome per non essere riconosciuti.
Ciascuno prese una via diversa. I due maggiori ebbero molte avventure; ma io racconterò soltanto quelle del minore. Il quale era grazioso, d'umore allegro e piacevole, una bella testa, fisonomia signorile, fattezze regolari, bei denti e moltissima destrezza in tutti quegli esercizi, che completano l'educazione di un gentiluomo. Cantava con gusto, suonava il liuto e la chitarra da incantare, maneggiava la tavolozza, era insomma un cavaliere compitissimo e di un coraggio che rasentava la temerità.
Non passava giorno che non comprasse cani grandi, piccoli, levrieri, bull-dogs, da caccia, spagnuoli, barboni. Se ne aveva uno bello e ne trovava un altro più bello, lasciava il primo per tenersi perché gli sarebbe stato impossibile, solo com'era, di menarsi dietro trenta o quarantamila cani; ed egli non voleva con sé nessuno strascico di gentiluomini o di servitori o di paggi.
Camminava e camminava, senza sapere neanche lui dove andasse, quand'ecco che una volta si trovò sorpreso dalla notte, dai tuoni e da un gran rovescio d'acqua nel mezzo foresta, dove non raccapezzava più nemmeno la strada che doveva fare.
Prese il primo viottolo che gli capitò fra i piedi, e dopo aver camminato un pezzo, poté scorgere un po' di luce; e da questa si figurò che, non molto lontano, ci dovesse essere qualche casa, dove avrebbe potuto mettersi al coperto fino al giorno.
Guidato così da quella po' di luce che vedeva, giunse alla porta di un castello, il più magnifico che si possa immaginare. La porta era d'oro, coperta di carbonchi, il cui bagliore limpido e smagliante illuminava tutti i dintorni.
E questa era la luce che il Principe aveva veduto di lontano. I muri erano di porcellana trasparente sulla quale, dipinta in colori, si vedeva la storia di tutte le fate dalla creazione del mondo in poi; né vi erano dimenticate le famose avventure di Pelle d'Asino, di Finetta, del Melarancio, di Graziosa, della Bella addormentata nel bosco, di Serpentino Verde e di cent'altri.
Gli fece grandissimo piacere di riconoscervi anche il Principe Folletto, perché era suo zio di Brettagna.
La pioggia e la stagione indiavolata gli levarono la voglia di trattenersi più a lungo in un luogo, dove si bagnava tutto fino all'ossa, senza contare che dove non giungeva il riflesso luminoso dei carbonchi, non ci si vedeva proprio di qui a lì.
Tornò alla porta d'oro, e vide uno zampetto di capriolo attaccato in fondo a una piccola catena tutta di diamanti: e non poté di meno di restare a bocca aperta, non tanto per la magnificenza di quel cordone da campanello, quanto per la gran sicurezza colla quale vivevano in quel palazzo.
«Perché», faceva egli a dire, «che ci vorrebbe per i ladri a staccare la catenella e portar via i carbonchi? Sarebbe il vero modo di diventar ricchi una volta per tutte.»
Tirò lo zampetto di capriolo: subito sentì suonare una campanella, che allo squillo gli parve d'oro o d'argento. Di lì a un minuto la porta si aprì, senza che egli potesse veder altro che una dozzina di mani per aria, ciascuna delle quali teneva una fiaccola accesa. A quella vista restò così intontito, che non sapeva risolversi a entrare, quando sentì altre mani, che lo spingevano per dietro, e anche con una certa tal qual violenza. Egli entrò là dentro a malincuore, e per ogni buon fine e rispetto portò la mano all'impugnatura della spada: quand'ecco, che traversando un vestibolo, tutto incrostato di porfido e di lapislazzuli, sentì due voci angeliche che cantavano così:
Delle man.,che vedete
Non vi prenda sospetto:
Ché sotto questo tetto
Non da temer nulla.
Se non le seducenti
Grazie di un bel visino;
Caso che il vostro cuore
Non voglia rimaner schiavo d'amore.
Egli non poté immaginarsi che lo invitassero con tanta buona grazia, per fargli poi un brutto tiro: per cui, sentendosi sospinto verso una gran porta di corallo, che si aprì al suo avvicinarsi, entrò in una gran sala, tutta di madreperla; e quindi passò in altre sale ornate in mille maniere differenti e così ricche di pitture e di marmi preziosi, da farlo restare sbalordito.
Migliaia e migliaia di lumi, che dal soffitto arrivavano fino a terra, illuminavano altri quartieri; anche questi pieni di lampadari, di luci a riflesso e di ventole gremite di candele. Per farla corta, era una tal maraviglia da crederla un sogno.
Dopo aver traversato una fila di sessanta stanze, le mani che lo guidavano lo fecero fermare, ed esso vide una poltrona grande e molto comoda, che si accostò da sé sola al camminetto. In quel mentre il fuoco si accese: e le mani che gli sembravano bellissime, bianche, piccole, bofficette e ben proporzionate, cominciarono a spogliarlo: perché, com'ho detto poco fa, era tutto fradicio mézzo e c'era il caso di fargli prendere Gli fu presentato senza che egli vedesse alcuno, una camicia così bella, che era proprio una camicia da sposi, insieme a una veste da camera, di stoffa trapunta d'oro e ricamata di piccoli smeraldi, che formavano degli arabeschi e delle cifre. Le mani, senza corpo, gli avvicinarono una toeletta, che era una vera maraviglia: e lo pettinarono con tanta leggerezza e con tanta maestria, che rimase contentissimo. Poi lo rivestirono tutto, non coi panni di lui, ma con gli altri abiti molto più belli. Egli stava ammirando, senza fiatare, tutto quello che accadeva sotto i suoi occhi, e di tanto in tanto aveva qualche brivido di paura, che non poteva vincere a nessun costo.
Quando l'ebbero incipriato, pettinato, profumato, vestito in gala, e fatto più bello amore, le solite mani lo condussero in una sala magnifica per i mobili e per le dorature. In giro alle pareti si vedeva la storia dei gatti più famosi. Rodilardo appiccato pei piedi, nel Consiglio dei Topi: il Gatto cogli stivali, marchese di Carabà: il Gatto scrivano: il Gatto cambiato in donna, i Sorci mutati in gatti: il Sabbato e tutte le sue stregherie; insomma non c'era cosa più originale di questi quadri.
La tavola era apparecchiata, con sopra due posate e due tovagliolini, ciascuno dei quali col suo laccetto d'oro: la dispensa faceva restare a bocca aperta per la quantità di vasi di cristallo di monte e di altre pietre preziose. Il Principe non sapeva per ...
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