UGOLOTTI BRUNO

Title:UN PAESE COSÌ COSÌ
Subject:ITALIAN FICTION Scarica il testo


UN PAESE COSÍ COSÍ
da
La Sala degli Specchi
di
Bruno Ugolotti

C'era una volta un paese così così, governato da un Re così così. La gente, è naturale, conduceva una vita così così. Di fame proprio non moriva nessuno ma i poveri erano poveri davvero e i ricchi erano solo dei ricchi mediocri.
A lavorare, sia i poveri che i ricchi, preferivano riposare. Ad agire, criticare. Di arrischiare denaro in una impresa pochi se la sentivano. Se proprio bisognava fare qualcosa per vivere, essi arrivavano al lavoro in ritardo e l'abbandonavano in anticipo. Le segretarie stavano ore al telefono, gli impiegati leggevano il giornale in ufficio, i principali dormivano. Gli scolari, invece di seguire le lezioni, guardavano fuori dalla finestra. Le loro maggiori aspirazioni, da grandi, erano fare l'agente delle imposte, il questurino o il militare, dato che guerre in quel paese nessuno aveva voglia di farne.
Così accadde che, coll'andar del tempo, mentre gli altri paesi andavano avanti, in quel paese restavano indietro. Si viveva spremuti dalle tasse ed i bilanci non quadravano mai, né privati né pubblici. Per comprarsi, macché un'automobile, una bicicletta, al cittadino di entrate medie occorrevano i risparmi di un anno. E quando aveva risparmiato un anno, la bicicletta costava il doppio. Andare colle scarpe scalcagnate entrava ormai nella normalità. Non parliamo dei vestiti tenuti insieme a forza di rammendi. Per risparmiare i soldi del parrucchiere, le signore si strinavano i capelli colle tenaglie scaldate nella brace e andavano a letto coi bigodini.
Alla gente sembrava di star bene perché non si era mai mossa dal suo buco, ma c'era un giovanotto che aveva visitato altri paesi e faceva i confronti.
Guarda un po' che ingiustizia, si lagnava, siamo esseri umani come gli altri ma quelli vanno in carrozza e noi a piedi. Ci sarà una ragione, e se la trovo trovo anche il rimedio.
Va all'università, studia scienze politico-sociali, raggiunge la laurea e arriva alla conclusione che il nemico numero uno del suo paese era l'imperialismo. Questo sistema torvo ed arrogante indeboliva le forze produttive, soffocava le iniziative, toglieva ai poveri il pane dalla bocca. E poiché imperialismo e monarchia, diceva lui, sono come il sedere e la camicia, la colpa di tutti i mali che affliggevano il suo paese ce l'aveva la monarchia.
La soluzione è buttar fuori il Re, concluse.
Scrisse dei manifesti, dipinse cartelloni, diede conferenze e fece riunioni di stampa nel corso delle quali spiegava le sue scoperte con i dettagli che meritavano, e si lanciò per le piazze a protestare contro l'oscurantismo, i proprietari terrieri, il feudalesimo, gli appannaggi e i privilegi di Corte.
Anche i sovrani così così se gli pestate i calli reagiscono. Il Re portò pazienza per un bel po' ma quando vide che le chiacchiere degeneravano in offese e le dimostrazioni in tumulti ordinò una retata generale e schiaffò il giovane in gattabuia.
Ma anche dalla gattabuia il giovane continuava a protestare. Fece lo sciopero della fame, arrivarono i giornalisti. Le sue dichiarazioni vennero fuori sulle riviste, a domanda e risposta. Apparve pure in televisione, rapato e ammanettato, davanti ad un pruneto di microfoni. Vennero fatte petizioni all'estero; un affare coi fiocchi.
Ma pescare nel torbido, in quel paese, era una pratica tradizionale. I militari, che col sovrano avevano la ruggine, fecero subito conciliabolo.
"Una bella occasione", dissero i generali..
"Sarà difficile che si ripeta".
"Approfittiamone".
"Tutti d'accordo?"
"Tutti d'accordo".
Entrarono nottetempo nell'alcova del Re, lo tirarono giù dal letto e lo spedirono in Portogallo, in camicia da notte e pantofole.
Preso il potere, i militari proclamarono subito la repubblica e nominarono Presidente il Generale col maggior numero do stellette sopra il colletto della camicia. Il giovane venne liberato e iscritto al Circolo dei Difensori della Patria. Lo Stato gli concesse l'uso d'una parrucca finché i capelli gli fossero ricresciuti.
I Generali, in ordine gerarchico, si divisero le principali cariche statali, poi pubblicarono uno statuto nel quale stabilivano che per togliere quel paese dai guai c'era tutto da rifare. Il primo passo sarebbe consistito nel fare la rivoluzione industriale, programmata, naturalmente, e guidata dallo Stato Maggiore dell'esercito.
Giù quindi a far progetti, preventivi e dettar regole d'economia perché lo Stato che fa tutto lui sembrava il non plus ultra dei sistemi, ai militari di quel paese, per fare progredire una nazione.
La gente rimaneva strabiliata leggendo le notizie sui giornali dei milioni, e bilioni, stanziati per le industrie dello Stato, gli enti, le aziende, le piantagioni, gli istituti d'appoggio tecnico finanziario burocratico. E dato che la volontà di lavorare non dipende dai cambi di governo, si aspettavano tutti un posticino nella galassia di posticini che quegli stanziamenti promettevano. Si aprì la caccia alle raccomandazioni, e chi non aveva un parente militare se lo inventava.
Ma da che mondo è mondo per seminare e poi aspettare di raccogliere i frutti ci sono sempre voluti i capitali. I militari, che non ne avevano, cominciarono a chiederli in prestito. Charters di colonnelli partivano pei differenti paesi della terra famosi per la loro prosperità. Scendevano ai principali alberghi cinque stelle, prendevano una settimana di riposo per abituarsi al cambio dell'ora, nuotavano in piscina, frequentavano i bar, mettevano qualche corno alle consorti, poi andavano in banca e bussavano alla porta del direttore.
"Omaggi".
"Omaggi a voi".
"Sa che avremmo bisogno d'un bilione".
"Eh, la miseria!"
I colonnelli aprivano le cartelle e tiravano fuori i preventivi: perforazione di pozzi petroliferi, oleodotti, centrali elettriche, miniere, cantieri navali, fabbriche d'ogni genere. Spese, entrate e guadagno.
"Beh, se è così sta bene. Ma quali garanzie potete offrire?"
Garanzie? Di garanzie ne avevano da vendere. Se non fosse bastata la parola, c'era lo Stato mallevadore. E se questo non era ancora sufficiente, sarebbero rimaste come pegno le navi uscite dai cantieri, i minerali, il petrolio, la produzione delle fabbriche ed i pesci pescati dalle sciabiche.
"Badate che gli interessi sono alti".
I colonnelli si mettevano a ridere. Bastava dare un'occhiata alle utilità che figuravano in fondo ai preventivi. Gli interessi non spaventavano nessuno, se ne sarebbe reso conto anche un bambino.
Un giorno dopo l'altro i bilioni affluirono a quel paese. I generali si misero alla testa delle banche, l'industria chimica, il petrolio, le miniere, la televisione, le comunicazioni, le aziende elettriche e le agenzie turistiche. I colonnelli assunsero la direzione delle fabbriche. I capitani andavano a pescare e inscatolavano le sardine. I tenenti dirigevano le attività agricole. Perché il processo non dovesse subire alterazioni, e ad evitare liti e dissapori, quando il presidente raggiungeva l'età della pensione veniva sostituito da un collega del medesimo grado.
Ma passavano gli anni e dai cantieri le navi non uscivano, il petrolio veniva fuori col contagocce, i minerali restavano dov'erano. Le catene di montaggio varavano automobili difettose. Gli apparecchi elettronici e gli elettrodomestici duravano da Natale a Santo Stefano. E poiché i capitali sono come le sementi affidate alla terra che se non danno frutto si perdono, così i quattrini prestati a quel paese si squagliarono come la neve a primavera.
È facile immaginare le condizioni in cui si venne a trovare la gente. Chi prima andava scalcagnato adesso andava scalzo, mancava il filo per i rammendi, non si trovava più carta igienica. L'unica carta a disposizione era la rozza carta di giornale. I bigodini e i ferri per i ricci si vendevano solo a borsa nera. L'unica acconciatura che le signore potessero permettersi era la crocchia sulla collottola.
Il giovanotto si metteva le mani nei capelli che, nel frattempo, gli erano ricresciuti fino alle spalle.
Se mi fossi sbagliato? Masticava. Ma no, ma no, il Re doveva andarsene. Qui c'è sotto dell'altro.
Si iscrive di nuovo all'università, frequenta un master, vince una borsa di studio e resta un anno all'estero a perfezionarsi. Torna convinto che il secondo nemico del suo paese è il capitalismo. La colpa insomma di tutti i mali che erano caduti su quel paese l'avevano i banchieri i quali prestavano i soldi non solo coll'intenzione d'averli indietro, ma con abominevoli fini di lucro. E poiché i militari erano caduti nel loro giuoco come merli, e i merli stanno bene sugli alberi, la soluzione che adesso s'imponeva era obbligare i militari ad andarsene.
Scrisse di nuovo manifesti, dipinse cartelloni e organizzò manifestazioni di protesta contro la guerra, l'autoritarismo, le organizzazioni verticali, la violenza, la bomba atomica, i gas nervosi e paralizzanti.
Erano, a dire il vero, dimostrazioni di quattro gatti perché la gente aveva paura: pensava alle bastonate, agli incarceramenti di dissidenti, alle torture e alle esecuzioni. I militari, però, fecero un altro ragionamento: le casse dello Stato sono vuote, le nostre fabbriche in fallimento; affoghiamo nei debiti. Non ne saltiamo fuori nemmeno se impegniamo le squadriglie, i carri armati, i missili e le corazzate. Saremmo proprio dei merli senza uguale se ci ...